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2022 Nuovi Lirici. Ascolto sensibile, di Matteo Galbiati, Simone Terraroli, Francesca Angilletti, Stefy Garzoni, Martina Ramera, Sophie Labigalini, Nicoletta Biglietti, Giulia Andrea Gerosa, Eleonora Bianchi, Jonathan Vecchini, Castello di Casale Monferrato (AL) dal 17 dicembre 2022 al 29 gennaio 2023
Nuovi Lirici. Dialoghi ed estetiche di prossimità
di Matteo Galbiati
Perchè
Oggi fare gruppo si dice essere, per il mondo dell’arte, una condizione complessa, spesso dettata dal mero interesse, sempre meno per un’etica condivisione della propria missione estetica, artistica, filosofica, sentita accostabile a quella di altri e mezzo per stabilire un comune percorso di visioni e scambi. Insomma secondo il diffuso pragmatismo attuale le ragioni di opportunità, il più delle volte, prevalgono sulle più buone intenzioni.
Condividere è termine imbrigliato nella comunicazione/relazione da social che, per quanto comoda e utile, non fa altro che acuire il distanziamento tra le persone per la sua impostazione da consumazione svelta, vissuta come “evento” transitorio e non già come valore fondante, perché è posta su un’osservazione distante che raramente si traduce in vera vicinanza. Perché fare gruppo oggi? Perché è misura di uno “stare bene” nel ritrovarsi in dialogo e in sintonia con l’altro; con chi è stato compagno di esperienze, di viaggi; con chi si è ammirato nel momento del successo con la sincerità della considerazione e non con la deplorevole piaggeria che maschera un’invidia ancora più esecrabile; con chi ha un approccio consimile nella visione profonda del mondo attraverso l’arte. Fare gruppo è, per questi artisti che compongono il gruppo dei Nuovi Lirici, la necessità di mantenere viva una storia che abita sia il versante della professionalità artistica e della relazionabilità senza gelosie – pur con scambi e confronti anche severi – della propria ricerca e del proprio lavoro con quelli degli altri, sia il fronte nobilissimo di una personale e fondamentale amicizia, stima e affetto sinceri che rendono vitale l’esperienza dell’arte rigenerandola di quella umanità che attualmente è troppo spesso trascurata.
Chi
Valerio Anceschi, Roberto Casiraghi, Misia De Angelis, Alessandro Fieschi, Ayako Nakamiya, Pietro Pasquali, Rossella Rapetti, Tetsuro Shimizu e Valdi Spagnulo dal 2008 – ma alcuni di loro sono già stati attivi in progettualità comuni dagli anni Novanta quando si conobbero presso l’Accademia di Brera frequentando i corsi dei loro maestri Gottardo Ortelli e Paolo Minoli ed esponendo poi nel ciclo di mostre Nuovi temperamenti dell’arte con la voce critica di Claudio Cerritelli – hanno voluto riorganizzarsi in modo sistematico come gruppo coeso, accogliendo altre voci “vicine” e perseguendo una scelta controcorrente che, lasciando sempre libertà al singolo di seguire il proprio percorso, in parallelo ha stabilito nell’azione collettiva il modo per sostenersi vicendevolmente. Lo sforzo di uno è lo sforzo dell’altro per cercare gli estremi di una pittura e di una scultura la cui espressività si fonda sul principio di una leggerezza poetica che, per una volontà, sottile e colma di sentimento, riconcilia con il suo dovere trasfigurante e narrativo nei confronti del vero e della realtà.
Tutti loro insieme esercitano una cultura delle immagini forte nell’osservare, come principio chiave, dentro di sé e amplificando poi il proprio sentire con la coralità di quello che acquisiscono con la connessione nella reciprocità. Un passaggio importante questo perché definisce il mezzo del loro operare per immagini.
Come
Le opere di ciascuno sentono le frequenze di quelle degli altri e riorganizzano la propria intonazione per accordarsi con la musicalità intrinseca delle altre: il risultato finale di ogni mostra collettiva, proprio per le specifiche conoscenze, raggiunge un equilibrio dettato dalla comune visione finale e rende l’operato complessivo, quello del gruppo, come esito di una nuova identità. Il gruppo diventa l’artista aggiuntivo, è l’anima ritrovata, è il referente con cui si aprono prospettive diverse. È qualcosa di ulteriore che mai sovrasta o riduce, ma sempre promuove e identifica. In questo modo Valerio Anceschi può far danzare leggeri i suoi disegni scultorei che si disseminano in movimenti liberi e aperti allo spazio e, tra pieni e vuoti, concepire la possibilità di nuove ambientazioni. In modo analogo, tra trasparenze e vigorosità, Alessandro Fieschi sedimenta il gesto pittorico ricucendo gli estremi dei suoi diversi gradienti segnici, trovati in temporalità sempre lontane e diverse, in un nuovo universo rappresentativo. Presenze ricorrenti che non scompaiono, ma si pongono in una migrazione attiva sulla superficie e sulla profondità delle sue opere.
Vivace è il tratto pittorico di Tetsuro Shimizu le cui tele si aprono a forme inconsuete che provano come la pittura sia un fenomeno vivo e sempre in divenire, mai pago di consolidarsi in un’immagine stabile. Si segnano i telai, le tele hanno porzioni integre, eppure il colore vive di una indeterminante decodifica in cui ogni cromia non è mai ciò che appare al primo sguardo. Anche Ayako Nakamiya rende vigoroso il segno della pittura che vibra in colorazioni che, appartenenti allo stesso registro, occupano lo spazio con consistenze e gesti diversi. Sono una trama fitta e caleidoscopica che ha una consistenza ancora diversa quando passa dall’olio all’acquerello che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, vive di un vigore maggiore, di una consistenza che non tocca mai la friabilità della trasparenza. È una diversa soglia di accesso all’acquerello quella di Misia De Angelis le cui atmosfere si caricano di elementi corpuscolari che riempiono il segno cromatico: sono presenze affioranti, mobili, attive che portano l’immagine a stabilire, nel piccolo della dimensione, un frammento di un universo maggiore che trasfigura nel colore il micro e macro cosmo che ci sta attorno. La bellezza delle sue consistenze sta nel concedere risonanza all’invisibile. Una musicalità intrinseca la definisce Roberto Casiraghi la cui calligrafia pittorica somma gesti e segni decisi ad altri che tendono a sparire liquefacendo il colore dentro i contorni della propria ombra. La sua azione sonda i livelli diversi della percezione sensibile, stratificando e muovendo la mobilità del sentire, restituito in un nuovo apparire formale, perturbante e coinvolgente.
Dentro l’intimità silente del colore si muove anche Pietro Pasquali che dimostra di scalfire l’assoluto del monocromo attraverso una pittura fatta di appena percepibili variazioni che consentono allo sguardo di esplorare la superficie del dipinto con un’attenzione resa più sensibile proprio grazie a queste diverse intensità. Anche le irregolarità delle forme del telaio contribuiscono a rafforzare la necessità di spingere lo sguardo oltre l’apparenza rilevata dall’occhio. Rossella Rapetti pure agisce per levità: smarcandosi dalla pesantezza di un proprio segno identitario, cerca di conformare forme espanse, mobili in cui le tonalità rispondono a invisibili forze che regolano i passaggi di luce e ombra, caos e ordine, particolare e universale. L’armonia della pulsione vitale agisce sulla consistenza dell’acquarello e dell’olio fornendole la forza di lasciar espandere impulsi non contenibili.
L’energia si manifesta anche nella scultura di Valdi Spagnulo in cui le forme leggere conservano, nella propria materia, i segni del tempo pregresso e quelli successivi della mano dell’artista: temporalità di agenti distanti allora si sedimentano e si accompagnano alimentando la testimonianza della loro presenza. L’artista coglie e segue un’intuizione che permette alla forma di ciascuna opera di rendersi viva e attiva non solo attraverso la sua fisicità, ma anche nella relazione profondamente cercata e voluta con l’intorno.
Quando
Queste ricerche individuali, che, come abbiamo detto sono correlabili attraverso spunti di scambio estetico-filosofici, cercano il dialogo tra loro e lo vivono come momento imprescindibile per dichiarare contenuti più forti nella dinamica della condivisa esperienza sensibile. L’aspetto importante è che questi artisti non hanno bisogno di avvertire questa volontà di “fare assieme” solo in momenti di necessità come la partecipazione e la presenza ad una mostra, ma sentono l’urgenza anche di intenzioni altre, nate proprio dal pensare al dialogo come bene fondante per le loro ricerche. In questo senso il loro quando principale è lo stare in studio assieme, è la partecipazione a progetti collettivi nati per una volontà “interna” che sa che c’è un senso diverso nella rispettiva aggregazione fuori dalla circostanza programmata. Ecco che l’incontro più produttivo avviene nell’occasione della preparazione di mostre, più che la mostra come risultato, quando i pensieri diversi di ciascuno confluiscono nella forte ispirazione di tutti che è, alla fine, il vero organismo a sé stante che sa dare, in definitiva, i migliori pronunciamenti. Anche progetti comuni come le cartelle di incisioni, i libri d’artista, etc…, sono situazioni cercate per lasciare una precisa testimonianza, di quel dovere di impegno e di critica che pone lo scambio e l’accettazione inclusiva come fattore fortificante e indispensabile. La prossimità del confronto e della frequentazione sono l’esercizio “semplice” della loro virtù principale, che è viva perché presente e indipendente dalle logiche attuali ed è affermazione di quel principio idealistico del primato di autonomia, determinazione e affermazione dell’artista sul sistema.
Dove
Sono diversi i luoghi in cui i Nuovi Lirici riescono a portare avanti la loro narrazione unitaria e non si scostano da quelli abituali e consoni al loro operare: sono gallerie, musei, spazi pubblici e privati che, però, vengono vissuti sempre in previsione del confrontarsi, prima ancora che con il pubblico, tra tutti i membri del gruppo. Il momento iniziale di ogni situazione scelta è l’istante privilegiato per innescare e attivare quei dialoghi e quelle estetiche di prossimità che fanno maturare, rafforzare e innervare l’intelligente consapevolezza della loro missione congiunta. È la coralità degli scambi che permette loro di trovare una strada comune che è il bene maggiore della volontà con cui rimangono uniti. Questo vale a prescindere da tutto e pone storia dentro la storia; passato, presente e futuro si uniscono nella prospettiva del fare assieme.
Le ultime opportunità del loro trovarsi sono state quelle della mostra presso la Galleria Antonio Battaglia di Milano che ha di poco anticipato l’apertura della grande esposizione presso il Salone Arturo Marescalchi del Castello del Monferrato a Casale Monferrato di cui questa monografia costituisce una preziosa e duratura testimonianza.
L’appuntamento a Milano, imprevisto, arrivato senza programmazione calendarizzato, ma mosso da un’incidentale incontro degli esiti recenti delle ricerche dei Nuovi Lirici con il gallerista Antonio Battaglia, li vede protagonisti della prima effettiva mostra del gruppo in una galleria privata milanese. Anche in questo caso è storia che incontra storia: il gallerista, interessato proprio alla qualità della loro proposta e del loro progetto unitario, ha voluto celebrare i vent’anni dell’attività del suo spazio inserendo una mostra dedicata ai Nuovi Lirici, perché la modalità espressa dalla loro esperienza ricalca quanto fatto nei decenni con i propri progetti. Il valore della cooperazione e il sostegno a quelle realtà di confine sono il motore propulsivo dell’attività della galleria e così non si potevano non combinare e incontrare i due percorsi. Se alcuni di loro individualmente avevano già avuto modo di presentare qui la propria ricerca, ora il ventennale della galleria è la propizia coincidenza che celebra una selezione di loro opere e li inserisce in un quadro di accadimenti più ampi di cui loro, coralmente, possono dare un contributo appassionato e potente.
A Casale Monferrato, ulteriore tempo per un ritrovarsi in un ambito pubblico, aperto all’incontro con osservatori diversi e non prevedibili, con sguardi curiosi e carichi di interrogativi, i Nuovi Lirici si sono predisposti, invece, in un allestimento che, favorito e stimolato dall’esclusiva specificità di questo luogo, accentua la singolarità di ciascuno di loro. La mostra è stata indirizzata a creare una raccolta ampia di opere di ogni artista e, frazionate in piccoli ambienti, si è posta maggiore attenzione proprio sull’espressività del singolo. Gli ambienti hanno accolto in questo modo delle piccole monografiche in cui opere di formati diversi e di estensioni visive differenti hanno abitato lo spazio alla ricerca di una dialettica più forte e serrata. Intrecci e rimandi, favoriti dalla presenza connettiva delle sculture, ha definito una visione ambientale della pittura. I nove artisti hanno accolto, in altrettanti capitoli singolari e, nell’insieme, rappresentativi, una scrittura narrativa più monumentale e di più ampio respiro emotivo. Le testimonianze delle loro opere ha agito con un dinamismo diverso, meno istituzionalizzato e composto, alla luce di una libertà che non solo sottolinea l’esclusività autoriale di ciascuno di loro, ma anche permette di leggere la duttilità con cui queste opere si ritrovano a coesistere come coscienza di gruppo. Insieme dimostrano la validità coerente e imprescindibile del reciproco raffronto che nutre le rispettive ricerche di quel “comune percepire” che vive, poi, nella “diversa” manifestazione visiva, ma si orienta nella medesima volontà di trasfigurazione lirica.
Anche se, vogliamo sottolinearlo, il coraggio maggiore del loro esserci e del loro perdurare è esattamente in questo altro dove: la vera sorgente primaria è in quella pura reciprocità di dialogo che, come si diceva, anche con scambi intensi e senza concessioni o sconti, produce la loro conoscenza profonda, tradotta poi nel bene comune del decimo artista, il gruppo stesso. Questa identità nasce e matura sempre lontano da quei riflettori che molti altri artisti vorrebbero avere sempre puntati addosso, negli studi, in quei luoghi primari del fare di ciascuno che si aprono sempre agli altri. Qui inizia davvero tutto, il resto è poi un’altra via per restituire quanto trovato a chi sa, può e vuole cogliere e condividere. Ancora.
Concretezza e smaterializzazione. Moto e stasi. Energia e ascolto. Così si rivela la poetica di Valerio Anceschi nella lettura di un materiale concreto e “stabile” come il ferro che guida la creazione artistica di opere, la cui dinamicità intrinseca rivela un’esigenza di trasformazione e rinnovamento.
La sua sembra essere l’esplicitazione di una “necessità” connaturata all’essenza stessa della materia: considerare “l’animo”, l’interiorità e la sensibilità del metallo – ponendosi in ottica di ascolto – permette all’artista di tradurre il ritmo interiore dei frammenti, estraendone e astraendone, una musicalità armonica.
È un processo che permette al ferro – materiale individuato tra gli scarti dell’industria meccanica e pertanto non convenzionalmente associato alla scultura – di elevarsi a “rappresentazione in divenire”; il moto, infatti, è ciò che, pur nella stasi apparente, definisce e connota le realizzazioni di Anceschi.
Il vivere nella spazialità dell’ambiente, astraendosi da esso e abbracciando la fisicità del vuoto permette ai lavori scultorei di andare al di là della concretezza della materia e del mero segno inanimato; essi esprimono una mobilità spontanea, organica e vitale che consente loro di librarsi nello spazio senza gravità.
Le opere sono il risultato di un intenso e intimo “dialogo” tra la materia e l’artista, nel quale la levità aerea si contrappone alla fatica e gravità fisica esperite in fase di realizzazione.
I lavori scultorei sono dunque la traduzione – in forma concreta e visibile – dell’ineffabile interiorità del metallo.
L’energico tratto unito all’estrinsecazione della parte più recondita del sé comunica come il “gioco di gesti” – presente sia nella produzione scultorea che pittorica – sia solo apparentemente casuale: infatti le opere invitano a riflettere sulla mutevolezza e sull’interdipendenza delle diverse componenti costitutive, i cui legami sono sanciti mediante la saldatura, fase finale ed estremamente intenzionale del procedimento creativo.
Alla base di ogni opera vi è una “volontà assemblatrice” tesa a concreare una struttura non pre-determinata, bensì “animata” e definita dalla calibrata giustapposizione tra la componente aleatoria e l’anelito “unificatore”.
Il desiderio dell’artista di mostrare la componente epidermica del ferro – talvolta caratterizzata da imprecisioni, sbavature e ruggine – testimonia come il manufatto scultoreo allo stesso tempo si imponga e si elevi dallo spazio reale.
Il ferro privato dal proprio peso si tras-forma nell’esito di un segno timbrico, la cui componente materica – seppur in formato bidimensionale – è ravvisabile sin dalle prime opere pittoriche. Trascrivendo nel visibile l’essenza profonda della materia, Anceschi esplicita la modalità mediante la quale la “musicalità interiore” del metallo diviene “spirito senza peso”; così facendo, egli infonde alla “corporeità” e concretezza terrena della scultura un’ascendenza fugace, sublime e celestiale.
L’appartenere contemporaneamente all’ambito del solido, dell’aereo, dell’illusione e della realtà appare sin da un primo sguardo alle opere; si determina così il ruolo fondamentale rivestito dall’osservatore, quale interprete attivo di una poetica non tesa al mero soddisfacimento del gusto imperante, bensì all’esplicazione di una componente “fisica” e, al contempo, “sensibile” della materia.
L’“assenza di una presenza” è rivelata dall’ombra che – proiettandosi oltre il limite concreto del manufatto – pare assumere un’esistenza autonoma, ma concatenata alla temporalità stessa: non appena l’opera si libera dalla componente di gravità fisica, l’ombra – in relazione all’angolo di incidenza della luce – prende corpo sino a penetrare la concretezza materica stessa.
La componente “manifesta” della creazione artistica – sia essa pittorica o scultorea – si esprime in una modularità ritmica di equilibri instabili; comunicare la propria visione della realtà, della vita e della poetica artistica facendo riferimento al concetto di “precaria instabilità” rimanda alla produzione artistica di Alexander Calder.
Come “sculture d’aria” – caratterizzate da una componente statica e al contempo mobile – le realizzazioni di entrambi gli artisti esplicitano un aspetto narrativo che stimola l’uomo al dialogo e al confronto.
In un rapporto di “continua evoluzione” con lo spazio circostante, le opere di Anceschi testimoniano la duplice temporalità connotante l’esistenza umana; l’importanza rivestita dal “processo” di creazione dell’opera è una componente fondamentale per l’autore; individuare, selezionare e cogliere ogni possibile traccia del vissuto contenente in sé un “potenziale di mobilità” è una condizione imprescindibile alla realizzazione del manufatto artistico.
Il progetto “è” nel processo di “ascolto” della materia, nel quale il metallo manifesta l’energia di un impulso volontario e ineluttabile che viene colto dall’artista: se – come afferma Anceschi – è il ferro che diventa Arte, allora l’opera nel proprio esserci si dichiara.
Testo di Nicoletta Biglietti
Lo stile di Roberto Casiraghi è mutevole, in continua evoluzione, costituito da contrasti. Così, sono le sue opere: atmosfere sia fluide che granitiche, sono presenti nelle incisioni, caratterizzate da un’intensità materica e cromatica, quasi oscura, da cui si stagliano le più soffuse tele di Emerse precipitazioni.
Questo è l’ossimoro che caratterizza tutto il suo lavoro: un’alternanza di alti e bassi, positivi e negativi, caldi e freddi. Differenze che non solo esistono fra le opere, ma che arrivano a coesistere nello stesso quadro.
In alcuni lavori il colore sembra offuscare la mano dell’artista, sembra celare la gestualità artificiale che l’ha creato in favore di un’atmosfera liquida, fatta di bolle e correnti cromatiche, come se fosse un acquerello astratto auto-generatosi.
Tuttavia anche in queste opere l’artista è fortemente presente e lo segnala allo spettatore proprio tramite l’uso del colore, con cui crea le forme: i profili soffusi, gli accenni a linee geometriche precise, tipicamente “umane”, matematiche, e l’accostamento di colori così contrastanti. In altri lavori l’artista si palesa maggiormente, sin da subito. Questo è evidente nelle opere che includono forme sì organiche, ma dai contorni ben definiti, come impresse sulla tela da una matrice. Gli accostamenti di colori quasi opposti, se non complementari, suggeriscono un cambio repentino, troppo brusco per rispettare i tempi dolci della Natura. È in questa fase che irrompe la presenza tangibile dell’artista, tramite linee di separazione che indicano una pausa nella temporalità dell’opera, un prima e un dopo.
Oltre a ciò, Casiraghi utilizza il colore nero sotto diverse forme, modellandolo in base alle esigenze espressive. Dai pulviscoli alle gocce, per giungere a quelle sagome che sembrano tracciate da un soffio di fuliggine, il nero, in lui, è come una firma: io sono stato qui.
Per comprendere correttamente le sue opere, è necessario prendersi del tempo per riflettere. Oggi come oggi, sembra quasi blasfemo “sprecare” tempo per impegnarsi non solo nella lettura, ma nella lettura di un’immagine. Il paradigma contemporaneo “immagine = immediata = nessuna perdita di tempo” è capovolto nei suoi lavori. Qui l’immagine e la gestualità si riprendono i propri spazi, richiedono un tempo materiale per essere eseguite dall’artista e un tempo contemplativo per essere percepite da chi guarda. Sulla tela, l’insieme amalgamato di elementi appare spontaneo, naturale, simile all’immagine di uno stagno dopo la pioggia. In realtà, è solo dopo una lettura più lenta e approfondita dell’opera che ci accorgiamo dell’artificio leggiadro di questa scena bucolica.
All’autore non interessa strettamente nascondersi o rivelarsi, non intende essere ideologico e categorico, schierandosi su uno dei due versanti. Per Casiraghi è importante esprimersi tramite la creazione di queste atmosfere cromatiche, di cui lo spettatore può prendere coscienza a livelli diversi. Le figure e le forme a cui dà vita sono vere e proprie sensazioni, variabili secondo la soggettività di ognuno. L’artista non indica quale sia l’interpretazione corretta, poiché tutte sono valide, in quanto memorie, tracce della sua presenza, anche fra loro sovrapposte. Ecco, allora, apparire l’immagine del quadro come uno stagno dopo la pioggia, un bacino che ha raccolto emozioni ed eventi differenti, più o meno lontani nello spazio e nel tempo, ora riuniti in un’unica superficie. Non più solo uno specchio d’acqua, ma uno specchio reale, che restituisce in un attimo l’immagine veritiera del racconto, del diario che l’autore realizza per la propria persona e che successivamente mette a disposizione di tutti, o meglio “a chi ha voglia di guardare, e non solo vedere”, come afferma lui stesso. In questo senso l’artista non intende mostrarsi ad ogni costo, scoprirsi in modo esplicito, ma compie un processo mentale completamente diverso, quasi opposto, con il fine ultimo di liberare la propria gestualità, raccontandosi a se stesso.
Dipingere è dunque sia una narrazione, che una forma di ascolto. Un ascolto attento, che accoglie i suoni del mondo esterno, ma soprattutto quelli dell’Io più profondo. La loro trascrizione su tela è poi affidata alla mano, alla sensibilità dell’artista, che li rielabora ulteriormente per dare luce alle opere, portavoce di questa suggestione narrativa quasi metafisica.
Così i quadri di Casiraghi diventano preghiera, sono dimostrazione di fede aconfessionale in qualcosa che non è necessariamente visibile. La pittura è tanto un mezzo per giungere a tale riflessione, quanto il frutto stesso di quest’ultima. Secondo l’artista “la pittura è altro, altrove, qualcosa di più grande di noi, a cui aspirare senza pretendere di possederla”.
I suoi lavori sono una forma di mediazione e meditazione. Essi mediano il rapporto dell’artista con l’universo, ma anche il dialogo fra l’identità dell’artista e le sue emozioni. In tal modo essi diventano anche forme meditative, simili ai mandala orientali: l’atto creativo, fisico e mentale, implica una riflessione intima, di una dimensione altra, incentrata sulla spiritualità.
Testo di Giulia Andrea Gerosa
Misia De Angelis con le sue opere crea una dimensione d’infinito, dove la gestualità scompare e il colore conquista tutta la superficie, portando lo sguardo al di fuori del perimetro del “quadro” stesso, superando confini dove nulla è trattenuto e limitato.
Il suo lavoro è caratterizzato da pittura su carta in piccolo formato su cui si osservano toni quasi monocromatici in diverse sfumature e tonalità, comprese quelle del bianco e del nero. La difficoltà introdotta dalla privazione e dalla sottrazione, quasi un azzeramento voluto dall’artista, apre una sfida alla comprensione di un linguaggio così essenziale. In verità lei dona ai toni del colore, anche ai bianchi e ai neri, il carattere di una nuova percezione dove la pittura si concentra al massimo sul proprio carattere e potere espressivi. Nell’utilizzo di tutti i colori, anche quelli con minore potere seduttivo immediato, forse più difficili, porta agli estremi il principio di dissoluzione dell’immagine in grado di erodere la forma attraverso una peculiare tensione poetica.
Inoltre, con la modalità della sua pittura, sviluppa dimensioni e profondità spaziali con sedimentazioni di velature – rese possibili grazie a un procedimento lento e controllato di colore in acquerello – per mezzo delle quali è possibile cogliere trasparenze e leggerezze, che rilevano un contrasto continuo tra densità o nitore, oscurità o luminosità in un’astrazione che permane essenziale.
La ricerca di De Angelis è frutto di un percorso iniziato da una visione concentrata sulla riproduzione di un particolare donato dalla natura e raffigurato in modo tale da raggiungere la propria forma evocativa all’interno di uno spazio astratto; fino ad arrivare agli ultimi anni quando la dimensione spaziale viene suggerita da una diversa percezione della natura in relazione alla collocazione dell’essere umano in un mondo profondamente cambiato.
I suoi lavori è come se rappresentassero parti dell’anima dell’universo: Il vuoto di un paesaggio, la terra vista dallo spazio, un petalo osservato da vicino, ogni singolo microrganismo. Il tutto appartenente ad una visione contemplativa nella consapevolezza di trascrivere la natura nella sua manifestazione totale, da quella più piccola a quella più grande.
Il momento di presa di coscienza e consapevolezza del proprio sentire si percepisce come intuizione ed emozione che riportano effettivamente il fluire di pensieri raffigurati nella maniera più oggettiva possibile, come se l’artista fosse di questi un tramite. Il suo percorso è indirizzato ad una continua ricerca dell’assoluto, di un’estrema sintesi, di vibrazioni e tensioni, che diano decorso ad una possibile rappresentazione del dramma del destino umano.
L’intento dei suoi lavori è provare a trasmettere ancora questa capacità percettiva, di meraviglia nei confronti della natura e dell’universo, che, purtroppo, al giorno d’oggi l’uomo sta perdendo soprattutto a causa del continuo bombardamento e consumo rutilante di immagini. La sensibilità e la capacità, espressive e rappresentative dell’artista, agiscono da filtro e ci mostrano, quindi, un nuovo punto di vista e un’inedita prospettiva di osservazione e analisi. Creando una sorta di tensione poetica con ciò che viene raffigurato, si svela il forte legame con tutto ciò che appartiene alla natura ivi compreso anche l’uomo contemporaneo che ne fa comunque parte.
Ammirando le opere di Misia De Angelis ci troviamo in una dimensione assoluta, dove il colore pervade totalmente la superficie (e oltre), sovrastando l’occhio dell’osservatore e portandolo al di là della struttura pittorica, in una dimensione pura, suprema e in costante divenire. Originate da un semplice dettaglio o da un differente punto di vista, che possono variare fra macro e micro cosmo, queste visioni, così differenti per l’essere umano, allo stesso tempo fanno parte di un “insieme unico”.
Davanti a queste opere, spesso di piccole dimensioni, l’osservatore è chiamato a superare il limite, ritrovandosi di fronte a uno spazio percettivo differente e (non) limitato: rispetto ad opere di grandi dimensioni, dalle quali potrebbe repentinamente essere travolto in maniera quasi aggressiva, non deve farsi bastare la semplice ammirazione dell’opera, ma è invitato ad entrarci. Chi guarda si immerge nell’opera invece di esserne sopraffatto; si cimenta ad un ascolto che è sensibile. Poco per volta si viene condotti in uno spazio di infinito, fatto di silenzi, un inedito universo dove potersi ritrovare e riconoscere, interrogandosi e cogliendo, quando possibile, un pensiero nuovo, misteri nascosti, sensibilità sconosciute.
Per lei l’arte dovrebbe avere la forza e la capacità di portare all’incanto, al sogno, all’illusione e al contempo ricondurre alle radici della nostra storia, al grande patrimonio della nostra cultura. Per questo Misia De Angelis alimenta la sua ispirazione anche attraverso uno studio metodico dei modelli del passato recente e antico, in pittura come in letteratura, a cercare una chiara sorgente nella quale ravvivare e riconoscere la propria forza poetica.
Testo di Martina Ramera
Memorie di vita passata riflesse nell’ombra, frammenti di un presente che vanta un’oggettivazione e una realtà di un futuro tangibile. Segno, gesto e materia sono orme di un esistenzialismo, slegato dalla presunzione dell’arte contemporanea di sottostare all’intelletto della tecnica come unico portavoce dell’anima. Essi sono caratteri per indicare la qualità emotiva dell’arte, fondante nella ricerca creativa del progetto estetico, capace di salvare l’atto del dipingere dai meri miraggi tecnologici. L’espressione pittorica di Alessandro Fieschi si rivolge ad una miscela di elementi linguistici della tradizione novecentesca, costituendo un coefficiente percettivo che consolida, nella connessione intrinseca con lo spettatore, l’identità capace di attivare rinnovate suggestioni e riflessioni motivate da un nuovo e differente modo di percepire l’invisibile e il visibile.
La frammentazione, connotata da combinazioni vive e armonicamente espressive, rappresenta il luogo del darsi-ritrarsi dell’opera stessa, rafforzata attraverso la capacità di definire e concepire inedite potenzialità che si autodeterminano e persistono nell’esperienza di chi le sa leggere. L’artista lascia affiorare sensazioni in cui si avverte lo stato di nascita delle forme, le vibrazioni che l’occhio coglie nel manifestarsi e le mutazioni tangibili giustificate dalla stratificazione dei materiali.
“Il collage – come sottolinea Fieschi – è un qualcosa che si intravede dal piano frontale della superficie, è un frammento vibrante di realtà, può essere un tessuto o una traccia di tela precedentemente realizzata, che diventa parte di un sistema. Mentre il dipingere, lasciare dei sedimenti o “pozzanghere” cromatiche, appartiene al linguaggio propriamente legato alla tradizione pittorica e rappresenta il patrimonio delle nostre memorie”. La spazialità non viene evocata unicamente dai due piani oggettivi, scaturisce, invece, da un fattore temporale ed uno esistenziale dell’uomo, delineato dalla memoria, un dato indefinibile e intangibile che ci appartiene indissolubilmente, e dal desiderio, un presente sconosciuto e indecifrabile dove l’unica volontà deriva dall’intuizione. In essa, il pubblico è chiamato a completare l’opera con una parte di sé, partecipando alla “meraviglia della rivelazione delle cose”, dove l’ascolto profondo dell’essenza rappresentativa della pittura deve essere prodotto da un’azione d’istinto.
Quello che traspare è il mistero, il desiderio di cogliere quel dato appartenente all’animo umano, scaturito dalla mano e dalla mente dell’artista che si coordinano, secondo una dirompente alchimia, per lasciar affiorare, sulla superficie cromatica, la bellezza palpabile dell’immaginazione. Questa facoltà dell’irreale, osservata in un’ottica bashariana, ci descrive come l’immagine e l’idea siano realtà contrapposte e non si possono eliminare a vicenda, rappresentando la staticità del disegno e l’organicità delle forme. A tal proposito non si può negare la stretta relazione tra le immagini di cui si avvale l’inconscio umano e quelle legate al mondo naturale che, nella dicotomia, ritrova il legame imprescindibile della sua produzione artistica.
Ciò implica che ci sarà un particolare legame tra l’individuo con l‘intera natura, una tensione corporale, la quale, solamente nella condizione di rêverie, permette di far emergere le immagini simboliche celate all’interno. L’artista doma le energie del caso, espresso nella sgocciolamento istintivo, e del voluto, combinandoli nel sottile equilibrio armonico delle forze naturali e artificiali. In questi termini, il dripping, alla maniera di Pollock, rappresenta l’elemento cardine del dualismo intrinseco dell’opera: da un lato, difende la naturalità incontrollata del rovesciamento di sostanze sulla superficie orizzontale, dall’altro, viene, invece, assorbito nel linguaggio del suo successivo intervento, che lo riporta sulla realtà presente nella tela attraverso l’impercettibile vibrazione vitale che correla il pensiero all’esistente.
Come rimarca Fieschi “tutto è già scritto, detto e fatto, resta a noi saper cogliere i segni evidenti del mondo in un momento in cui essi costituiscono una rivelazione di una conoscenza o sentimento superiore, differente rispetto alla quotidianità”. L’antitesi si rispecchia nel riconoscimento arcaico dell’imperfezione, dove i difetti sono la veridicità del processo artistico, mentre l’unilateralità del pensiero e del lavoro rappresentano la inesatta perfezione. Una pittura inesauribile, dunque, in cui alla sensibilità del colore si sovrappone la perizia alchemica, con alternanza di sostanze che sostengono il carattere segnico del suo processo creativo. Sezioni sfumate e secche, materiali liquidi e ruvidi, texture e collage che si concentrano all’interno del campo pittorico in silente sensibilità organica.
Il quadro, quindi, diventa unicamente una sostanza di passaggio capace di far vibrare la parte più nascosta dell’animo umano, dove l’artista compone stratificando, solidificando materiali e componenti per aspirare ad una definizione contrapposta alla corruttibilità dell’immagine pittorica.
Testo di Stefy Garzoni
Una tela che prende vita, portando in sé frammenti di storia, dominati dal desiderio di dare un senso a pensieri e sentimenti che governano presente e passato. Il vissuto di Ayako Nakamiya viene trascritto nel gesto tangibile di un’espressività cromatica, da cui emerge un racconto di se stessa, creando giochi di colore che, sovrapponendosi, danno vita a effetti di luce dominante, oscillando come suoni che evadono dal tessuto pittorico.
Il segno vibrante delle sfumature e l’atto energetico prodotto dalle pennellate generano immagini prive di contorni delimitati, originando componenti naturali, percepibili solo perché evocativi nella mente di chi sa osservare. La goccia di pittura lasciata al limite della tela nasconde un tratto di continuità, un campo aperto che mira a lasciare uno spazio sospeso tra quello che si vede e ciò che si sente.
“Voglio rilasciare tratti di materia vivente – afferma Ayako Nakamya – che conducono la mente ad una spazialità nella quale l’immagine e la materia viaggiano parallelamente, tra i toni protagonisti del blu, del rosso e del bianco”.
Le composizioni si strutturano nella purezza della ripetizione cromatica, mutando i contrasti, la luminosità e la gestualità con il rigore estremo con cui i segni e figure sono prodotti. Il continuo divenire delle opere è uno spazio di sperimentazione dove viene espressa la fluente dimensione della pittura. Il colore e la materia, come musica di una partitura armonica, agiscono coralmente nello sviluppo, presentando forme, profondità e trasparenze che accrescono in una corrente poliedrica.
Nei dipinti aniconici e inesauribili di Nakamiya confrontiamo due tecniche contrastanti, ma consimili, l’olio e l’acquerello, con cui sente una grande vicinanza dettata dall’incisivo ascendente che esse hanno sulla sua vita. I due diversi materiali si combinano per dare unitarietà al percorso artistico, evitando consapevolmente la loro sovrapposizione in un unico supporto. La verità di Nakamiya è rappresentata nella bipartizione delle due diverse pratiche, in cui la sensibilità del colore viene anteposta dalla particolarità del segno, che rispecchiano la natura più vera della sua creatività artistica. L’acquerello su carta ci riporta ad una tradizionale tecnica di matrice giapponese, tramite la gestualità decisa e controllata, mira a simboleggiare la tranquillità dell’animo, al contempo forza e incisività sono riconosciute mediante la pennellata energica e dinamica.
In antitesi, la pittura a olio, riconduce ad una tradizione di origine occidentale, che, per l’artista, è stata un’esperienza da affrontare, un mezzo con cui esplicitare impulsi nascosti dentro se stessa, l’esprimere di un forte sentimento e una passione intima. Una pratica che Nakamiya ha costruito con un segno più corrosivo e compatto, aperto a qualcosa di nuovo, mirato a produrre energie sotto forma di immagini astratte.
Il dualismo, tra la formazione giapponese e quella italiana, crea un passaggio da una dimensione conosciuta di serenità interiore a uno stato di scoperta verso nuove sfide, alla ricerca di qualcosa di sconosciuto, rappresentando il passaggio tra due culture differenti che trovano il modo di coabitare nell’animo dell’autrice; una convivenza che cogliamo nelle sue tecniche e contemporaneamente nella modalità di utilizzo bilanciato di tonalità calde e fredde in cui prevalgono il rosso e il blu.
Contraddistinta da una profonda ricerca sulla pittura, che tende a vibrare verso il bianco, come nell’opera Rosa bianca, il bagliore della luce, inteso come un’inquieta ricerca della trasparenza, si confronta con la natura del colore e si libera da legami rappresentativi, dove la visione si adombra e si rischiara controllata dal continuo generarsi delle forme, fino ad ottenere una mescolanza di bagliori e offuscamenti.
Quest’opera segue un’attenta indagine pittorica dove l’artista cerca di correlare analisi e memoria, sentimenti e racconti di pensieri tramite un’immagine che esplicita le condizioni dell’esistenza terrena, provocando sensazioni in antitesi tra loro che, riportate dalla purezza e leggerezza trasmesse dal bianco presente sulla superficie della tela, valorizzano però, la forza dominata dalla pennellata decisa e graffiante presente in tutto il dipinto. L’artista fissa figure che si raccontano avventandosi impetuosamente nell’innegabilità dello sguardo e del pensiero umano.
I lavori di Ayako Nakamiya, essenziali e apparentemente semplici, sprigionano una forza superficialmente incontrollata; custodiscono una disciplina che preserva la tenacia della mano donando una tenue vibrazione vitale che lega il principio del pensiero. Il processo creativo è il risultato di azioni istintive che riportano un sentire profondo dell’essenza più intima dove la mente e il cuore si coordinano per lasciar affiorare le emozioni più nascoste. Il tema ricorrente dell’attività di Nakamiya è mettere in dialogo lo spettatore, l’opera e se stessa, così da stimolare in lui la ricerca di ciò che si nasconde al di là della tela, ciò che non è stato detto, generando un campo aperto nella mente di chi contempla e custodisce il significato intimo dei suoi dipinti.
Testo di Sophie Labigalini
Monocrome ma non troppo, le opere di Pietro Pasquali raccontano di una ragionata impulsività, di un agire attimo per attimo, ma senza lasciare nulla al caso, neppure il caso stesso, che viene, piuttosto, cercato, inseguito, quasi calcolato. Spazio, luce e colore si fanno pelle, vita e personalità, elementi inscindibili che instaurano un dialogo con chi si trova dall’altro lato dell’infinito. L’artista sente l’esigenza di proiettarsi verso l’altro e la monocromia è l’unica via concessa: un colore in più è un colore di troppo. Il rischio? La stagna autoreferenzialità.
Per quanto l’artista sia particolarmente legato alla gestualità, che considera un mezzo per congiungere la mente e il corpo, le sue sono opere dal carattere aleatorio, nelle quali la pennellata scompare per lasciare spazio a un’atmosfera velata, vaporosa, offuscata, che sembra nascondere una presenza lampante ma remota, persino eclatante, ma sempre intangibile. Non ci è permesso vederla e farne esperienza a livello concreto, rimane un’intuizione, effimera, latitante, evanescente.
Nella serie delle Cromie, l’impressione che abbiamo è quella di guardare il cielo da sotto la superficie dell’acqua, o meglio, dell’olio. Ci troviamo immersi in una dimensione ovattata, assoluta, dalla quale non possiamo, e non vogliamo, uscire. Tale percezione è amplificata dalla forma del telaio, irregolare, instabile, simbolo e sintomo di una vita che scorre implacabile, di un intervallo tra due vuoti, farsi e disfarsi, nascere e morire.
Così come davanti alla vita che sfugge inesorabilmente dalle nostre mani senza darci il tempo o la possibilità di fare qualcosa a riguardo, allo stesso modo quando osserviamo un’opera di Pasquali il nostro occhio annaspa in cerca di un appiglio che non si trova e che forse neanche esiste. Si percepisce la sensazione del dover cercare altro e del dover cercare oltre, ma sempre e comunque restando dentro la tela. Lo sguardo vaga ovunque ma non abbandona mai lo spazio pittorico, unica dimensione possibile per la ricerca di quel non so che, quell’elemento indefinibile dell’arte che diventa veicolo del piacere sensibile, una sorta di potente magnete che ci attrae all’opera e non ci lascia liberi.
Le opere di Pasquali esigono lo sguardo dell’osservatore, lo pretendono, e noi, completamente disarmati e incapaci di opporci, non possiamo fare altro che arrenderci a questo richiamo, schiavi della bellezza. Dalla contemplazione passiamo a una spasmodica ricerca. Di cosa? Non lo sappiamo neppure noi. Sappiamo soltanto che la tela ci sequestra per il tempo che basta: a lei per insinuarsi in noi e a noi per permetterle di farlo, fino a quando non ci restituisce, impotenti, alle nostre vite e cadiamo sotto la sua immensa forza.
Tuttavia, il nostro è un cedimento che nulla ha a che vedere con il peso dell’opera che, anzi, si costruisce su leggerissime variazioni di colore, stratificazioni continue che raccontano di un viaggio ossessivo dell’artista, che porta la tela all’esasperazione in un gioco quasi perverso, fatto di colla di coniglio e mani su mani di olio e pigmento, fino a soffocarla.
Non è ammessa prospettiva, il colore è il quadro, la sua essenza. Le velature, silenziose ma tonanti, rendono l’opera leggera ma mai superficiale e, allo stesso tempo, imponente e travolgente, senza però farci scivolare nell’asfissia. Al contrario, osservando una Cromia, ci sembra di tornare a respirare a pieni polmoni dopo un interminabile periodo di apnea.
“La pittura è un modo per rendermi conto che esisto”, dice Pasquali, e se i suoi quadri sono il risultato di un processo di autocoscienza cartesiana, che si potrebbe parafrasare come pingo ergo sum – dipingo quindi sono –, è proprio attraverso tali esiti e l’esperienza estetica che ne deriva, che sentiamo di esistere anche noi.
Nonostante possano apparire come istantanee misteriose e quasi oscure, non esiste niente di più chiaro: quello che cerchiamo ossessivamente nella profondità delle opere di Pasquali parla più di noi che dell’artista stesso, che si fa portatore quasi profetico di un messaggio che trascende il qui ed ora per arrivare ad un’eterna universalità.
Nella tela scopriamo una comfort zone tra infinito e ideale che si manifesta ora come uno spazio totale e pacifico, ora come un’esplosione di luce mistica che costringe a una contemplazione maniacale del sublime. Il nostro sguardo è completamente assoggettato all’opera, che instilla contestualmente pace e timore reverenziale.
Davanti a un’opera di Pietro Pasquali, più che dalla sindrome di Stendhal siamo colti dalla sindrome di Stoccolma.
Testo di Eleonora Bianchi
Sensibilità, trasparenza e coscienza: è questa l’impressione immediata che fluisce davanti alle sue opere. Rossella Rapetti lascia libero campo alle sensazioni che si concretizzano nella scelta dei colori accostati con consapevolezza dell’azione pittorica.
La scelta di utilizzare la tecnica dell’acquerello nelle sue principali opere, nasce dal 1996 con la sua prima mostra personale al Bar Jamaica, a Milano. In questo spazio, ricco di situazioni che hanno fatto la storia con i grandi artisti contemporanei degli anni cinquanta e Sessanta, Rapetti ha intrapreso il suo percorso artistico.
Nella formazione dell’artista i riferimenti più importanti sono stati il simbolista francese Odilon Redon e Victor Pasmore, artista inglese della seconda metà del XIX secolo, che hanno stimolato la sua visione spaziale e l’intensità delle opere. Altrettanto importanti sono stati i pittori della cosiddetta scuola americana del Color field painting come Helen Frankenthaler, Morris Louis e Sam Francis.
Nel corso degli anni l’artista ha sperimentato diversi linguaggi dettati anche dall’uso di materiali caldi e tattili come la pittura ad olio e il feltro e dalle loro variazioni cromatiche, rese ancor più vivaci dalla sua esperienza lavorativa. L’unica costante che, tuttavia, contraddistingue la sua ricerca è l’acquerello utilizzato sia in una visione monocromatica – si pensi alla serie Pensieri Indaco – sia con dominanti cromatiche legate al rosso-arancio e, nell’ultimo periodo, al malva-violetto.
Per lei l’acquerello è una presenza viva: lo lascia libero di reagire sotto i suoi occhi, libero dalla sua mano, accompagnandolo semplicemente nel suo percorso cromatico. Il suo compito è quello di cogliere gli attimi di sensibilità che il colore le regala. È così che, nel movimento inconscio, si creano forme che diventano struttura portante di ogni singola opera.
Questa scelta consapevole della tecnica sulla superficie pittorica sprigiona un colore che pulsa come il cuore di un fanciullo, formando così isole soffici che si addensano sempre più, quasi a diventare gesso, rivelando in tal modo un senso di immobilità. La sensibilità di Rapetti ha la capacità di immortalare un momento e farlo vivere anche a chi osserva i suoi lavori. Come nell’opera della serie Del crepuscolo (2021-2022), dove si entra a capofitto nella malinconia: la sensazione diventa più profonda grazie ai toni poco brillanti e opachi, ma in queste opere – come dice l’artista – “si intravede anche un senso di speranza, deliberata da giochi di bianchi che ricordano la luce”. Rapetti non smette mai di giocare con le velature del chiaroscuro e con l’elemento essenziale dei suoi lavori, l’acqua, aiutandosi anche dal movimento che scorre angelico dalla mano al pennello.
Con le sue opere si viaggia attraverso atmosfere delineate che rimbalzano tra incanto ed esuberanza. Espresse anche dalla vitalità che il colore crea andando a riempire la periferia della tela a simboleggiare un frammento di vita che fa parte di un momento più ampio. Le forme, che prendono vita nel farsi della pittura, assumono una loro coscienza, diventando un unico contrasto con le figure sognati che l’acquerello crea. L’accettazione pittorica si svolge entro campiture di colore, diversità atmosferiche, toni e mezzi toni, elaborati con impressionistica tensione dinamica ed abilità cromatica di accostamento.
Il pennello scorre sulla superficie dell’opera sicuro e libero da ogni pensiero, a conferma di un’espressione unica staccata dalla realtà di un mondo turbolento. Nelle sue opere l’arista lascia sempre intravedere la sensibilità di un semplice gesto, aggredendo lo sguardo del pubblico. In loro esiste un’energia che eccita l’immaginazione fino a farla deflagrare, così da manifestare una grande potenza espressiva.
Non si tratta, dunque, di una pittrice che è in grado esclusivamente di stimolare meditazioni sulla bellezza cromatica nelle sue composizioni: vi innesta e fa rivivere una condizione umana che oscilla tra intimità e vitalità. Si può affermare che la pittura di Rapetti non è esito di impulso istintivo, ma un fatto di sensibilità ed emozione, un rapporto complesso e misterioso; una ricerca continua delle manifestazioni del mondo che scopre con l’osservazione. Ogni sentimento diventa quadro, ogni cosa della vita che ci circonda si trasforma in soggetto vivo. Per l’artista l’arte è un mezzo idoneo non a riprodurre l’evidenza delle cose e della figura, bensì a cercare un’identità speciale della relazione complessa e profonda tra l’uomo e il mondo fuori.
Rapetti cristallizza miracolosamente la sua facoltà di espressione e svela le atmosfere del mondo. Il suo pennello è come un bisturi che rovista nel colore, senza danneggiarne l’essenza. Questo processo di riduzione ad essenza è unito ad un’azione di ricerca dell’Io più intimo dell’artista, un’osservazione che si propone come memoria e sensazione. Ne risulta così un linguaggio più lirico e meno concettuale.
Ovviamente è impossibile, nei termini di questa brevissima nota, sfiorare la complessità e la sofisticazione del linguaggio pittorico di Rossella Rapetti: la pittura è mossa, dipinta con mano maestra dall’acquerello, tecnica che l’artista padroneggia in modo mirabile, portando la liquida trasparenza dei movimenti all’immediata naturalezza con cui traduce attimi di vita in immagini di puro colore. Il suo mondo pittorico consiste in una grande sensibilità poetica e in una forte ricchezza di umanità che sa tradurre con consapevolezza e con testimonianza grazie un’ispirazione che appare pronta a far eccellere la sua visione dell’arte con temperamento e con una vena fortemente e nobilmente romantica.
Testo di Francesca Angilletti
Mujō (無常) è una parola giapponese che esprime un concetto difficilmente traducibile. In italiano lo si può ricondurre al termine “impermanenza”. Mujō è la mancanza di immobilità, il continuo evolversi delle cose, la natura in divenire del mondo. Mujō deriva a sua volta dalla parola sanscrita Anitya, impermanenza per l’appunto, che nel buddismo rappresenta uno dei tre aspetti fondamentali dell’esistenza. Potremmo anche definire Mujō come “qualsiasi cosa è, sarà, era”. Se il cristianesimo ha espresso il suo credo nella realizzazione di chiese solide, immutabili, costruite con materiali che possano resistere al peso dei secoli senza mai cedere, lo stesso non è avvenuto nei paesi influenzati dal buddismo. In Giappone ad esempio gli oggetti, le case e i templi sono costruiti rispettando il concetto di Mujō. Per gli edifici vengono impiegati materiali caduchi, effimeri, come la carta di riso o il legno che, data la loro natura, sono destinati ad essere sostituiti, in uno spirito di eterno rinnovamento e costante cambiamento.
Il lavoro di Tetsuro Shimizu è permeato dal Mujō, da questa impermanenza. Le sue opere ne sono la manifestazione. Attraverso le pennellate il colore viene fatto vorticare, creando degli sciami di gesti, che evocano andamenti mutevoli, impalpabili, impermanenti. Per L’artista il colore è tre cose: Materia, ovvero elemento solido e concreto che occupa uno spazio reale nel mondo fisico; Luce, che cambia la materia, la modella e la permea, entrando a farne parte; Percezione, perché senza un occhio umano guidato da una mente capace di provare emozioni il colore è privo di significato. L’uomo attribuisce un valore e un contesto al colore. Potremmo paragonarlo facilmente alla musica. In quest’ottica la pennellata dà il ritmo alla sostanza cromatica, che si avvicina al concetto di “tonalità”. L’unione di materia e luce con la percezione sensibile dà vita al colore. Nelle opere di Shimizu quest’elemento fondamentale non è mai lo stesso, perché la materia che lo compone è influenzata dalla luce e dallo sguardo dello spettatore, sempre nuovi, sempre diversi, è quindi impossibile pensare di cogliere con un unico sguardo tutti gli elementi, tutte le pennellate e le variazioni della tela, dal passaggio del pennello, alla tela grezza che talvolta emerge, richiamando un senso di “non finito”, di opera in continuo divenire.
Un altro aspetto fondamentale nello stile dell’artista è la realizzazione di telai irregolari. Il telaio viene modellato, viene espanso e tagliato, perde la sua iconica forma per trovarne di nuove. Shimizu sfrutta le caratteristiche peculiari del legno, un materiale vivo che, anche dopo anni dall’impiego, si muove, si assesta, cambia la sua forma per adattarsi alle condizioni in cui viene posto. L’intelaiatura è dunque cosa viva e a suo modo impermanente. Modificando il telaio lo si rende scultoreo e lo si libera dal suo ruolo di supporto, si trasforma in elemento partecipe alla realizzazione dell’opera. Shimizu crea i propri telai in studio, aggiungendo e tagliando il legno, riallacciandosi alla tradizione secolare dell’artista come artigiano, artista come creatore dei propri strumenti di lavoro. C’è, in questo processo, la sua forte volontà di concentrarsi sulla disciplina pittorica, di dedicarvisi completamente, di esplorare le ancora infinite possibilità che la pittura ha da offrire. Tale ricerca non va intesa tuttavia come un ancoraggio al passato che nega l’applicazione dei nuovi media nel campo dell’arte. La scelta di rimanere fedele alla pittura e l’applicazione di nuove soluzioni ad essa è la continuazione di un’eredità mai ferma, sempre in movimento, in costante contrasto con se stessa. Potremmo definirla addirittura impermanente. Shimizu unisce due elementi fondamentali della pittura, il telaio e il colore e crea qualcosa di unico, un’opera d’arte nuova, che non è rinchiusa nel suo formato più tradizionale, ma entra in contatto con la parete su cui è esposta, occupa uno spazio non chiaramente definito. Il colore e il telaio entrano in risonanza, come linguaggi diversi che comunicano lo stesso messaggio, rafforzandolo. Shimizu è fortemente influenzato dalla pittura del maestro Paul Cézanne, del quale vede la prima retrospettiva realizzata in Giappone, a Tokyo negli anni ‘70. Da Cézanne l’artista mutua l’attenzione per la qualità concreta della pennellata e per l’utilizzo ponderato dei colori.
La pittura di Shimizu è estremamente personale, ma allo stesso tempo in dialogo con il panorama contemporaneo. I suoi quadri sono inviti alla meditazione, all’analisi approfondita di ogni gesto, di ogni pennellata, di ogni colpo di colore. Le opere di Shimizu sono vortici di segni che escono dalla dimensione del quadro per riversarsi nell’ambiente; occupando uno spazio ben maggiore, sono opere vive e, per questo, non possono essere contenute da telai rettangolari. Sono come composizioni musicali, dove diversi strumenti cooperano alla creazione dell’opera, il ritmo della pennellata indirizza la tonalità del colore, racchiusa nella forma irregolare del telaio. Tutti gli elementi della poetica di Tetsuro Shimizu sono la manifestazione di un concetto: Mujō, l’impermanenza, che conferisce alle opere il loro dinamismo esclusivo, la loro verità, la loro capacità di uscire dalla dimensione del quadro per riversarsi sulle pareti. Ogni cosa è, sarà, era.
Testo di Simone Terraroli
Le orme sulla spiaggia, figuratamente, rappresentano un percorso prestabilito, un percorso sicuro delineando il passaggio di un individuo in un tempo relativamente precedente a noi. Le orme sulla spiaggia ci permettono, finché visibili, di ripercorrere i passi di qualcun altro, facendoci sentire protetti e riparati dalle insidie che si nascondono nel terreno e da quello che ci riserverà il futuro. Le orme sulla spiaggia ad un certo punto però possono scomparire a causa dell’alta marea che, incurante del nostro percorso, decide di metterci in difficoltà, lasciandoci il compito di proseguire da soli, senza guida verso l’ignoto. Ciò nonostante, a volte, arriva il momento in cui, arsi da una nuova vitalità, bramosi dell’ignoto, affamati di conoscenza, saremo noi a prendere in mano le redini del nostro destino, infinitamente grati a colui che è passato prima, a colui che ci ha mostrato il cammino, ma desiderosi di intraprendere una nuova rotta in cui noi rappresentiamo la nave, la bussola e il marinaio.
Valdi Spagnulo ripercorre le orme lasciate dal padre Osvaldo da cui acquista la passione per l’arte e l’attenzione per la materia soprattutto grazie alla pittura sperimentale di quest’ultimo, caratterizzata da collage e dall’utilizzo del fuoco per modificare la materia. Proprio la materia per Spagnulo è incontrollata, primordiale, in divenire ed il confrontarsi con questa da parte dell’artista, proprio come per l’oratore che si abbandona al canto delle muse ispiratrici, genera un nuovo orizzonte, l’orizzonte in cui domina la poetica della manualità.
L’artista non progetta le sue opere, nessun disegno preparatorio, nessun bozzetto canoviano, nessun aiuto dall’esterno, vuole lottare con la materia, toccarla con mano, recuperare una fisicità perduta. I tagli, le fresature, le saldature, sono le parole con cui Spagnulo dialoga con la materia, la conosce ormai, sono amici-nemici di vecchia data, hanno un rapporto intimo e di interdipendenza tra le parti. La sua mancanza di progettualità è legata, inoltre, all’aspetto viscerale, quasi poetico, del materiale, riuscendo, suo tramite, a far trasparire al pubblico l’ipersensibilità propria dell’artista.
Nel corso della creazione delle sue opere l’anima e l’epidermide/superficie dell’artista e del materiale confluiscono in un conglomerato simbiotico caratterizzato da un dinamismo in cui l’esito sarà proprio l’opera d’arte. Acciaio, ferro e plexiglass sono i materiali più utilizzati, per la maggior parte elementi di riuso o di scarto, in particolare quest’ultimo approccio indirizzato al riuso rappresenta una componente fondamentale del suo lavoro poiché crea luminosità, rifrazione, leggerezza. Tuttavia la vera e propria particolarità della sua ricerca è l’elemento tangibile che l’artista utilizza, valutandolo come entità viva, che porta su di sé il proprio vissuto, la propria storia. Spagnulo intercetta la materia nel suo divenire, nel suo percorso di vita e le dà una nuova destinazione.
Questi elementi, inoltre, vanno a dialogare con lo spazio, facendo diventare il vuoto una parte imprescindibile della sua poetica: tale elemento aggiuntivo si manifesta con la luce che intangibilmente si insinua al suo interno e rappresenta un’azione, come per il pittore che attraverso i colori dipinge la tela e la luce entra nel luogo-tela in maniera sempre diversa. Ogni allestimento dell’opera risulta diverso e crea una situazione nuova, un’idea nuova, così facendo rende la scultura viva e in continuo divenire, generando un rapporto dialettico tra il vuoto nella concezione orientale – inteso come lo spazio necessario perché il soffio vitale (il Ki) possa agire in un flusso continuo, anche se non è da ritenersi un vuoto assente, statico, immobile, ininfluente sull’insieme, ma un “vuoto utile”, ricco di potenzialità espressive, attivo e fondamentale – e il vuoto come mancanza per gli occidentali, l’horror vacui. Nonostante questo il metallo, il plexiglas e le sue lavorazioni non solo delimitano uno spazio, ma lo rendono dinamico imperversando incontrollatamente nel vuoto dell’opera. In questa espressività Spagnulo lavora, crea, distrugge, lima, fonde, salda, brucia e rompe andando a ricercare il modo più adatto per delineare l’inconsistenza, per fissare un immagine. Le opere si integrano completamente nella realtà e, senza imporsi sul contesto in cui sono inserite, permettono allo sguardo dello spettatore di permeare la scultura, di attraversarla, di vedere dietro, come se fossero delle vere e proprie ‘’finestre sulla vita’’.
Proprio come l’essenza heideggeriana si mostra ma allo stesso si nasconde, il vuoto di Spagnulo ci appare, lo riconosciamo, ma ad un certo punto viene celato da uno spaccato di vita quotidiana che osserviamo dietro l’opera, creando una compenetrazione tra il vuoto e la vita reale. La realtà non si presenta limpida e riconoscibile nell’immediatezza dello sguardo poiché è infastidita, celata, disturbata dagli elementi tangibili, essi stessi vivi, modellati dall’artista. Così come gli eventi entrano prepotentemente nella vita di ognuno di noi, lastre, punte, spine, plexiglass entrano nel vuoto di Spagnulo rendendo l’opera una rappresentazione reale della vita e delle sue perfette imperfezioni.
Testo di Jonathan Vecchini